lunedì 12 giugno 2017

LA NARRATIVA DI LERNET-HOLENIA TRA COLTE DIGRESSIONI, GROVIGLI NARRATIVI E VETTE DI LIRISMO ESISTENZIALE

Un romanzo incredibile, per certi versi straordinario. D’altra parte ci sarà pure un motivo se Leonardo Sciascia ebbe a definirlo, in un’appassionata recensione, un libro che ha “un che di labirintico, affascinante e insieme vertiginoso”, che contiene “una diabolica essenza” e sa calarsi “dentro una conoscenza del cuore umano, dentro introspezioni e descrizioni, di eccezionale acutezza e delicatezza”. Diciamo subito che ci troviamo al cospetto di un grande narratore anche se, come al solito quando si tratta di opere in lingue di ceppo germanico, non sappiamo fino a che punto la traduzione gli abbia reso onore; francamente trovo a dir poco disinvolto l’utilizzo dei tempi dei verbi e la resa di alcuni neologismi da parte di Cesare De Marchi, autore di questa traduzione, ma si sa che dalle parti dell’Adelphi questo argomento è tabu. A proposito di questo monumento dell’editoria italiana, sarei proprio curioso di sapere per quale motivo il testo tradotto non viene sottoposto a editing, i refusi sono troppi e imperdonabili a certi livelli…
Ma torniamo al testo e sentite la musicale bellezza di queste mirabili descrizioni d’ambiente: “I muri dei campanili prendevano già la tinta della sera, alcuni strati di nuvole d’un grigio tenue e orlate di colore lampone, come le avrebbe dipinte Watteau, salivano impercettibilmente nel cielo. La piazza era già in ombra, ma il nimbo tra i campanili della chiesa dei gesuiti fiammava ancora come un’esplosione d’oro. Di tanto in tanto qualcuno attraversava la piazza. Faceva freddo, le giornate di tarda primavera emergevano appena –come lo scintillio di una polena dalla prua sommersa di una nave- dal fiotto d’ebano della lunga tenebra invernale. I colombi tubavano sui loro cornicioni”.
Non manca un omaggio, classico per un narratore nordico, ai paesi del Sud: “Anche il tempo era bello, di quella bellezza perfetta che a volte ci spinge a credere per ore, a volte per un giorno intero, di vivere nella felicità dei paesi meridionali”.
Lernet-Holenia, è questa la sua cifra distintiva, ama infarcire la narrazione di numerose digressioni di carattere filosofico-esistenziale che diffonde con leggerezza e nonchalance. Molte descrizioni di scene, apparentemente avulse dal contesto, sono di impareggiabile bellezza, la sublimazione dell’inutile come arte narrativa. Lo stesso intreccio giallo di questo romanzo diviene un semplice ma efficacissimo espediente narrativo. A volte, però, a furia di dilatare le congetture, finisce col produrre chiose prive di senso, sentite questa: “Ma se si lasciano gli oggetti nelle loro camere senza cambiarne di continuo la collocazione, essi acquisiscono per certo, nelle loro relazioni reciproche, un’importanza inspiegabile, e in quelle stanze, giacché non vi accade nulla, accade qualcosa che pare di rilievo incomparabilmente superiore a tutti gli atti compiuti nelle stanze invece abitate da qualcuno”; sfido qualcuno a spiegarmi che vuol dire!
A parte queste piccole sbavature, alle quali probabilmente si sarebbe potuto porre rimedio con un buon lavoro di editing, bisogna dire che siamo al cospetto di un libro da centellinare, su ogni parola bisogna soffermarsi con la massima attenzione, insomma è da gustare come un vino da meditazione ultradecennale, diciamo uno sherry Pedro Ximénez giusto per capirci.
La descrizione degli ultimi istanti di vita del sottotenente Fonseca, una delle vittime del misterioso killer dei membri del reggimento “Due Sicilie”, è quanto di più straordinario mi sia capitato di leggere in questi ultimi tempi: “C’era un gran silenzio; solo, da qualche parte, in una casa lontana, qualcuno suonava il pianoforte. La musica proveniva come da un altro mondo ed era immensamente triste. Una sensazione di sogno, quasi uno stato irreale, si impadronì di Fonseca. Nell’insieme gli toccò aspettare nella stanza una ventina di minuti, durante i quali si rivelò che quel tempo -e il tempo in generale- si poteva suddividere, ma non realmente misurare. Lo si poteva scomporre in parti, ciascuna di eguale grandezza rispetto alle altre… Ma quanto duri in realtà un minuto o un’ora, non si può determinarlo… Il tempo, insomma in sé non c’è – ma può esserci. Quel che conta è non accorgersi che c’è. Perché accorgersene è sgradevole. Meglio dimenticarsene. Oppure riempirlo con le cose il cui decorso costituisce il tempo. Allora esso ha una durata comprensibile. Altrimenti dura incomprensibilmente a lungo. E altrettanto terribile è che ci sfugga fra le dita o che non cessi di durare. Giacché il tempo dilegua solo per durare, e dura solo per dileguare…
Al pari di un prigioniero in carcere o di un santo nella sua grotta, che non soppesa più la propria felicità o infelicità, ma osserva ormai solo le oscillazioni della grazia -quell’effusione che scende dall’alto e gli consente di tollerare la propria esistenza- o il venir meno della grazia stessa, che torna a toglierli tutto, anche Fonseca sentiva ormai solo che stava pensando, o che i pensieri di lui si ritraevano. Ma quali pensieri? Non lo sapeva. Ebbe un sussulto di paura, senza riuscire a ricordare che cosa avesse pensato. E ricadde nel suo intontimento, e sopraggiunsero altre riflessioni – più concrete… ma non riusciva a rammentare nient’altro, anzi d’un tratto gli risultò quanto mai difficile pensare a qualcosa di preciso, era forse per via del pianoforte che continuava a suonare e lo intorpidiva, che cresceva d’intensità, si ingrossava e lo sopraffaceva con la sua veemenza, come se a un tratto chi suonava stesse lì accanto a lui”.
Per favore ditemi chi altro mai ha saputo fissare meglio gli ultimi istanti della vita di un uomo e ritrarli così drammaticamente dal suo stesso punto di vista!
Lernet-Holenia è magistrale nel descrivere l’atmosfera surreale che pervade i luoghi presso i quali sta per succedere, o in passato è successo, qualcosa di fatale. “…come quando una folata di vento improvvisa passa sopra gli alberi o i tetti, e per un attimo un’aria affatto diversa ristà nell’aria consueta del giorno, prima di disperdersi -ma quel fenomeno non era legato a un alito di vento o a un reale raffreddarsi dell’aria: era solo come un infiltrarsi nell’aria d’una sostanza altrettanto diafana ma assai più indefinita- o appena come un brivido. Un gran numero di cose, che non so esprimere, credevo di percepire – o meglio credevo di prendere coscienza di eventi a tal punto chimerici e obliati, che pareva tornarmi in mente non solo l’intera mia vita, su su fino a giorni così remoti che non potevo averli vissuti, ma anche tanti giorni di tante altre vite. E ogni volta che quel fenomeno si verificava, ogni volta che il brivido sopraggiungeva, erano anche i prati ad avvertirlo. Un fremito molto più delicato di un refolo li attraversava, sebbene i fili d’erba non si muovessero minimamente, o quantomeno non per quella causa; era solo uno scemare, per minimi gradi della luminosità del verde argenteo e tremulo –un rabbrividire, insomma che, nella sua inafferrabilità, toccava ancor di più l’anima. Così me ne stavo nella mia poltrona aspettando quotidianamente quello strano atterrirsi della natura…”.
Siamo nel campo della grande narrativa mitteleuropea e un riferimento all’inarrivabile Joseph Roth è d’obbligo, ma ditemi, d’altra parte, come fareste a non rintracciare echi rothiani nell’inutile tentativo di conciliazione che il signor Harff, arbitro del duello tra gli ufficiali Lukawsky e Pufendorf, rivolge ai contendenti: “Siamo diventati tutti dei poveracci. Non siamo più quelli di una volta. Il mondo di cui eravamo parte non è più. Ciò che qui sta per accadere è cosa d’altri tempi. Tempi in cui eravamo giovani. Non dobbiamo più invocare il giudizio di Dio in questa contesa. Dio è diventato altissimo. Non decide più. Chiedo ai contendenti di riconciliarsi”. La descrizione del duello che segue è un piccolo capolavoro di narrativa che catapulta letteralmente il lettore sulla scena con una potenza espressiva tale da fargli percepire l’odore della polvere da sparo.
Alta letteratura che mi imporrebbe ancora una lunga serie di citazioni, mi riferisco al sogno premonitore del colonnello Rochonville, tre pagine intense che descrivono in un’atmosfera plumbea la scena di “drappelli spettrali” costituiti da “uomini in cerca delle proprie tombe”. L’Adelphi, giustamente in questo caso, ha riportato questo testo nell’aletta della quarta di copertina ed è quindi facilmente rintracciabile.
Siamo al cospetto di un capolavoro, di livello straordinario, un caposaldo della letteratura europea; completo in ogni sua sfaccettatura riesce a raggiungere anche picchi di raffinato lirismo come in queste righe con le quali chiudo questa mia recensione (la chiudo a malincuore ma rischierei altrimenti di trascrivere il libro integralmente).
“…Ora Silverstolpe, curvatosi in avanti, sollevò un’ape dal tappeto. ‘Hai finito per calpestarla’ disse. ‘Avrei dovuto avvertirti, stava sul tappeto e forse era malata. Ma non volevo interromperti. Forse ero solo curioso di vedere se la scampava o no. Adesso, vedi, mi sto anche un po’ interessando -comprensibilmente- alla durata della vita altrui…’. Posò l’ape in un portacenere. ‘È morta,’ disse ‘sebbene l’estate sia appena incominciata. Sui fiori dei prati non potrà più andare, né sulle spalliere su cui batte il sole. Non tornerà più alle malve su cui era abituata a volare, né sul phlox quando è in fiore. Che anche i fiori fioriscano per niente! Che anche l’estate, all’apparenza eterna, finisca! Un giorno, quando si farà nuvolo, lo stagno si coprirà d’argento e le sue minuscole onde offuscheranno lo specchio di un mondo che non è più, e i suoi giunchi sussurreranno i nomi di tutti quelli che non saranno più. Che tristezza non ritornare più, mai più! E che anche gli amanti, ahimè, non possano ritornare, nemmeno loro! Loro che pure vivono l’uno per l’altra –prima per giorni, poi per settimane, infine per anni. E credono che sia per sempre. Eppure sopraggiunge poi l’ultimo istante. Si lasciano, e forse pensano ancora di lasciarsi come altre volte solo per poco tempo. Invece è per sempre. I cammini che erano abituati a percorrere li aspettano invano, e le stanze dove si incontravano restano vuote come spazi vuoti. Due mani si congiungono ancora, ma in quell’istante la mano dell’uno dista più delle stelle più remote, e le lagrime che vi gocciolano sopra, cadono nell’eternità.’”
Franco Arcidiaco
P.S. Quando sono andato a riporre il volume nello scaffale (letteratura straniera, ordine alfabetico per autore) mi sono accorto di possederne un’altra edizione (Alexander Lernet-Holenia, Le Due Sicilie, Serra e Riva editori 1983, pagg. 270, £ 24.000, traduzione di Elisabetta Bolla).
Ho avuto la conferma di quello che sospettavo: al solito la traduzione della Adelphi è stata effettuata in modo scolastico e impersonale, irrispettoso dei canoni della buona letteratura. Molti periodi che avevo trovato farraginosi, banali o incomprensibili qui si rivelano nella loro essenza e rendono sicuro onore a questo grande romanziere; senza dire che ho scoperto che alcuni refusi che avevo intercettato erano dovuti alla traduzione. Unica nota stonata è l’articolo nel titolo, quel “Le” Due Sicilie è inesatto e fuorviante poiché non rimanda immediatamente, come dovrebbe, al nome del reggimento ma appare come un riferimento geopolitico; in questo caso, però, penso che la responsabilità sia dell’editore (di cui è la competenza del paratesto) piuttosto che del traduttore.
Alexander Lernet-Holenia, Due Sicilie, Adelphi 2017, pagg. 244, € 19,00






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