lunedì 25 gennaio 2016

LA RECITA di THÉO ANGELOPOULOS

Un capolavoro assoluto, 222' di cinema purissimo. Praticamente una lezione di cinema dal primo all'ultimo fotogramma. L'ho rivisto dopo 40 anni grazie a un doppio DVD che avevo comprato un paio d'anni fa a Parigi, con sottotitoli in francese e in lingua originale. Ce l'ho fatta in un weekend. Lo dedico a Sebastiano Di Marco e a quella memorabile giornata del 1976 quando ci portò a vederlo (come una lezione) in una sala di Catanzaro.

lunedì 18 gennaio 2016

AMORE E MORTE TRA "ANONIMO VENEZIANO" E "LA CORRISPONDENZA"

Quando nel 1970 uscì "Anonimo veneziano" di Enrico Maria Salerno, il grande critico cinematografico Gianni Rondolino scrisse: «Sul tema abusato dell'amore e della morte, sul quale sono stati scritti tantissimi romanzi e realizzati innumerevoli film, Enrico Maria Salerno, novello regista, ha puntato tutte le sue carte. C'erano tutti gli elementi perché la cosa riuscisse: due personaggi giovani, belli, Venezia, infine la rivelazione della morte imminente che fa precipitare la storia nella tragedia. Su queste basi non era difficile comporre un film accattivante e commovente. Che negli anni '70 un'operazione del genere possa ancora riuscire è motivo di studio sociologico». "Anonimo veneziano" mi è venuto in mente, e con rimpianto, stasera dopo la visione dell'ultimo film di Giuseppe Tornatore "La corrispondenza". Pensate, se già Rondolino, 46 anni fa, era arrivato a considerare il mix amore-morte-splendida location, oggetto di studio sociologico, cosa avrebbe mai potuto dire oggi al cospetto del film di Tornatore. Un film assurdo, inutilmente noioso con delle cadute di stile incredibili, considerata la fama e la storia del regista. Due ore in cui del lavoro di un grande regista rimane solo qualche magistrale inquadratura e null'altro. Dialoghi ovvi e stucchevoli ed effetti speciali (la foglia di edera che bussa sul vetro della finestra, il cane infatuato della protagonista e l'uccello-anima a volo radente) decisamente imbarazzanti. Finanche la musica di Ennio Morricone risulta leziosa e banale. L'agone internazionale dà evidentemente alla testa a questa generazione di registi che, nel disperato tentativo di conquistare le grandi platee, sono pronti a stravolgere i propri canoni professionali e artistici. Non vado oltre per carità di patria, ma dico solo che se l'Oscar deve produrre questi effetti al cinema italiano è meglio evitare la partecipazione dei nostri registi.

domenica 17 gennaio 2016

LA LETTERATURA CALABRESE È VIVA

“Il saltozoppo” di Gioacchino Criaco e “L’imperfezione dell’angelo” di Nadia Crucitti apparentemente hanno solo due elementi in comune: sono usciti entrambi alla fine del 2015 e sono scritti benissimo. Ma in realtà quello che contraddistingue i romanzi dei due narratori reggini è il respiro universale del tessuto narrativo, che porta finalmente la letteratura calabrese fuori dalle secche del meridionalismo retorico e piagnone.
“La narrativa è una faccenda spietata” diceva John Irving e la narrativa è una faccenda da romanzieri e non da scrittori. È celebre la distinzione operata da Pasquino Crupi tra le due categorie, lui si spingeva al punto di non riconoscere a Corrado Alvaro forza narrativa. “Aveva forza evocativa, com’è il proprio degli scrittori che sanno osservare, non ascoltare, e il loro specifico sta nell’epifania lirica.” “…Corrado Alvaro non è un narratore. È, infatti, un grande scrittore. Il suo mondo è la memoria, la sua misura è il racconto.”
La dimensione di Criaco è invece senza ombra di dubbio quella del romanzo, un romanzo dall’incedere epico che, in alcuni tratti, richiama echi della grande letteratura latinoamericana. Criaco ha le idee molto chiare sul fenomeno della ‘ndrangheta e non ha alcun bisogno di ricorrere a noiose e trite dissertazioni socio-antropologiche, gli basta la potenza del suo estro narrante.
“Per il nonno la vita non aveva senso se non c’era un nemico da abbattere; e il mondo da cui proveniva ne era pieno: i padroni erano quelli che si prendevano le terre che appartenevano al popolo dei monti, e i mafiosi erano la loro arma migliore.”
Chiari, per Criaco, sono anche i motivi che hanno portato alla degenerazione moderna del fenomeno: “Ecco perché questa terra produce la peste: per punire i figli ingrati che hanno preferito l’inferno all’eden in cui sono nati, che hanno rinunciato a un cibo fatto di luce, colore, profumo per un pasto peccaminoso e stupido consumato dentro case vuote, anziché in rumorose colazioni contadine.”
Lo aveva capito bene Pasquino Crupi che, a proposito delle reticenze di Alvaro sull’argomento, scrisse: “Per Alvaro la civiltà contadina è come l’essere di Parmenide: è una e senza divenire. Non vide il molteplice, il generarsi della società contadina e dalla sua kultur dell’Onorata Società. (…)Non ho dubbi: civiltà contadina e Onorata Società sono una realtà non frazionata, nel senso che è dal seno della civiltà contadina che emerge l’Onorata Società. Questa trova i temi della sua connotazione ideologica, della sua visione della vita nei motivi identitari della civiltà contadina: onore, onore macchiato e da lavare con il sangue, farsi giustizia da sé, dignità come misura dell’uomo, rispetto dei vecchi, dei bambini, delle donne sono valori comuni alla cultura della civiltà contadina e alla cultura dell’Onorata Società i cui affiliati, per ciò stesso, vivono in mezzo alla società contadina come i pesci nell’acqua.”
E le donne sono le grandi protagoniste de “Il saltozoppo”; la storia di questa terra, dice Criaco, è “una storia fatta e narrata da uomini.” Ma aggiunge che “gli uomini, in questa terra, la verità non l’hanno mai saputa dire. Per sapere i fatti è necessario ascoltare le donne, unici testi attendibili delle storie familiari per come davvero si sono svolte. Presenze mute che interpretano le assenze, lavano i panni sporchi di sangue e riescono ad ascoltare e interrogare persino i morti. La verità e il cambiamento sono affidati a loro.”
Lo scrittore Vins Gallico, recensendo il libro, ha parlato della capacità mitopoietica di Criaco: la sua tendenza caratteristica consistente nel considerare miticamente fatti e eventi, che lo porta, però paradossalmente, a distruggere il falso mito che vorrebbe la ‘ndrangheta nata per difendere gli oppressi.
Gioacchino Criaco sceglie, con un felice espediente narrativo, di far parlare i protagonisti degli eventi in presa diretta e questo conferisce al romanzo un avvincente passo da vero noir. Ardito, al punto da rendere piuttosto impervia la lettura, è il paragone fra l’arcaica cultura calabrese e la storia cinese, ma si capisce che è funzionale al respiro universale che l’autore ha voluto dare al romanzo. Criaco, infatti, supera il concetto di tempo e spazio e scrive un romanzo senza confini né geografici, né storici, né antropologici.
Descrive i suoi personaggi con crudo realismo ma arriva alle sue verità senza congetture sociologiche e derive moralistiche, vi arriva narrando, soltanto narrando, com’è nella tradizione dei narratori di razza per i quali il romanzo è esclusivamente intreccio e azione.
Con Nadia Crucitti entriamo invece nel terreno del classico romanzo di formazione; lo sfondo è la città di Reggio Calabria ma potrebbe essere qualunque altro luogo del mondo. Gli anni invece sono quei “favolosi ‘70” che costituiscono una vera e propria miniera per i narratori della mia generazione. Nadia si destreggia con maestria tra dolori, sentimenti e sensazioni tinteggiando sullo sfondo, con realistiche pennellate, gli eventi che hanno reso quegli anni unici. La vita quotidiana in città ai tempi della Rivolta, è descritta in modo magistrale e funziona come una macchina del tempo per chi ha vissuto quegli anni. La sua sapienza narrativa intreccia efficacemente “pubblico e privato”, arrivando a ricreare la colonna sonora e le ambientazioni con un taglio da sceneggiatura cinematografica. L’immagine di copertina, che ritrae l’autrice in una posa classica di quegli anni, ha un fortissimo potere evocativo, anche se rende straniante la scelta della Crucitti di narrare in prima persona maschile. Il protagonista diventa, dunque, Francesco che, in una notte di dieci agosto, ripercorre il suo passato trainato dalla scia delle immancabili stelle cadenti. Il senso dell’esistenza esce preponderante dall’intreccio di, tutto sommato piccole, storie di provincia.
“Per questo spero che stanotte le stelle abbiano finito di cadere. In ogni caso non voglio alzare gli occhi al cielo. Non che serva a molto voler dimenticare ogni anno la caduta delle stelle. È una fitta al cuore, violenta, un dolore che ritorna, un tendere le mani per bloccarlo, per non smarrirmi, per non dover rivivere quel tempo straziante con dentro Andrea e sopra di noi meteore che solcano il cielo stellato lasciando fuggevoli scie. No, non mi sono certo svegliato per guardare le stelle. Non l’ho più fatto da quella notte del ‘76”.
“Quel dieci di agosto del 1976 il mondo ha perso il suo assetto, e io sono rimasto impietrito davanti alla catastrofe della mia vita. Credo sia stato questo a salvarmi. Diventare di pietra significa anestetizzarsi. Io non ero riuscito ad anestetizzarmi bene, mi rimanevano parti semisveglie che sentivo angosciate dalla voglia di urlare la loro disperazione e la loro rabbia, incapaci però di trovare la forza necessaria a farlo”.
Due grandi romanzi, dunque, che segnano la rinascita della grande letteratura calabrese che oggi si ritrova, se ai nostri due affianchiamo Carmine Abate e Mimmo Gangemi, a sfoderare un insuperabile poker d’assi.
Franco Arcidiaco
Gioacchino Criaco, Il saltozoppo, Feltrinelli 2015
Nadia Crucitti, L’imperfezione dell’angelo, Città del sole edizioni 2015

venerdì 15 gennaio 2016

IL COMPLEANNO DI REPUBBLICA

In questi giorni, in cui si sta celebrando in pompa magna il 40° anniversario della nascita de "La Repubblica", volontariamente o meno si sta diffondendo la convinzione che il nuovo quotidiano abbia visto la luce per appagare il desiderio del popolo della sinistra di avere un giornale di riferimento. Ora, a parte il fatto che la vera sinistra aveva ben due giornali quotidiani di riferimento che erano "Paese Sera" e "L'Unità", si dimentica che già dal 1972 la famiglia Crespi (fiutando l'aria) aveva impresso una netta sterzata a sinistra al "Corriere della Sera" affidandone la direzione a Piero Ottone che aveva subito arruolato come editorialisti gente del calibro di Pier Paolo Pasolini, Eugenio Montale, Enzo Biagi, Giampaolo Pansa (che all'epoca era schierato decisamente a sinistra...) e Alberto Ronchey e facendo scappare a gambe levate niente di meno che Indro Montanelli. "La Repubblica" nacque il 14 gennaio del 1976 accreditandosi apertamente come giornale di sinistra, ma orientandosi con un'abile operazione di marketing (rivoluzionaria per quei tempi) decisamente verso un target giovanile. Sin dall'inizio "Repubblica" dimostrò di rappresentare la voce (e gli interessi) di quella parte di imprenditoria che intendeva accreditarsi come illuminata e progressista per poter meglio governare una fase in cui l'elettorato italiano si stava chiaramente orientando verso quelle posizioni. "Repubblica" ha formato, nel bene e nel male, la classe dirigente di quegli anni e di quelli a venire. E soprattutto ha plasmato l'unico modello di sinistra che avrebbe mai potuto aspirare al governo del Paese; una sinistra quindi rigorosamente anticomunista, liberista, filo occidentale e cattolico-wojtyliana.
Dal punto di vista imprenditoriale, l'editoriale "La Repubblica" ha impresso invece una netta svolta al mercato dei giornali, che era ancora regolato da norme e consuetudine ottocentesche. Quando il 1 luglio del 1977 sono entrato nella squadra come responsabile della diffusione per le regioni Calabria e Sicilia, ho avviato un'esperienza formativa umana e professionale che mi avrebbe portato in pochi anni ai vertici di un settore molto particolare e specialistico quale quello della diffusione editoriale. I miei maestri sono stati, oltre Eugenio Scalfari (che i primi tempi seguiva tutte le fasi di lavorazione del giornale), Amedeo Massari e Giancarlo Turrini. I colleghi che ricordo con più affetto Amedeo Cermentini, Marcello Ciangottini, Stefano Cubeddu e Marco Mirandola.
Oggi l'icona è il primo numero di "Repubblica" distribuito in facsimile col giornale, per me è la prima busta paga di cui ancora oggi vado fiero e orgoglioso.

mercoledì 13 gennaio 2016

GIOVAN BATTISTA MARINO E IL VIRUS

Nella lotta quotidiana contro il tempo per dedicare quanto più spazio possibile ai libri (ma più guardi la tua adorata biblioteca più aumenta la frustrazione), devi per forza essere razionale e pianificare la lettura secondo un criterio che ogni buon lettore non ha difficoltà a gestire. Quando capita un periodo di inattività forzata, come una semplice influenza, è tutto grasso che cola. È quello il momento di piombare tra gli scaffali e tirare fuori uno dei tanti volumi che tu sai (e lo sai bene) avrebbe scarsissime probabilità di entrare nella famosa pianificazione. È un gioco bellissimo che riesce anche a farti dimenticare il disagio della malattia. Questa volta è toccato a un poeta del barocco italiano, ingiustamente considerato minore, Giovan Battista Marino (Napoli 1569-1625). Le immagini che lo ritraggono nelle copertine dei due volumi (I Meridiani, Mondadori... of course) sono tutto un programma, aspetto furbetto e sornione classico del cortigiano. Una vita avventurosa con un paio di passaggi in galera e la permanenza stabile nelle principali corti italiane e francesi. L'opera principale è il poema "L'Adone", ma quelli che trovo deliziosi sono i sonetti e l'epistolario, nei quali denota una straordinaria vena umoristica e cronistica tinteggiando degli spaccati di vita quotidiana dell'epoca veramente gustosi. Lo scopo della sua poesia era la descrizione della meraviglia, il suo modello, non a caso, Le Metamorfosi di Ovidio, il suo motto: "È del poeta il fin la maraviglia".

LA GRANDEZZA DEL DUCA

La grandezza di David Bowie consiste principalmente nell'essere riuscito a sopravvivere alla sua... sopravvivenza. I grandi del Rock sono morti giovani o hanno smesso al momento giusto; sono pochi i sopravvissuti che sono riusciti a mantenersi all'altezza della propria fama. Le penose derive di Bob Dylan e Bruce Springsteen sono sotto gli occhi di tutti. Il Duca Bianco ha continuato a sfornare capolavori fino all'ultimo giorno. Il suo ingresso nell' Olimpo della Musica è trionfale.

IL REGNO DI EMMANUEL CARRÈRE

“Ho letto Dostoevskij, so cosa dice Ivan Karamazov, e Giobbe prima di lui, sulla sofferenza degli innocenti, questo scandalo che impedisce di credere in Dio.”
“Sono diventato uno scettico. Un agnostico, nemmeno abbastanza credente da essere ateo. Un uomo che pensa che il contrario della verità non sia la menzogna ma la certezza...”
“…a pensarci, è curioso che persone normali, intelligenti, possano credere a una cosa tanto pazzesca come la religione cristiana, una cosa in tutto e per tutto identica alla mitologia greca o alle favole. Nei tempi andati, lo si può anche capire: la gente era ingenua e non esisteva la scienza. Ma oggi! Se oggi uno credesse a storie di dèi che diventano cigni per sedurre una donna mortale, o di principesse che baciano rospi e con il loro bacio li trasformano in principi azzurri, tutti direbbero: quello è matto. Fatto sta che un sacco di persone credono a una storia altrettanto assurda senza per questo essere considerate matte. Vengono prese sul serio, anche da chi non ne condivide la fede. Hanno un ruolo sociale, meno importante di un tempo, ma rispettato, e nel complesso abbastanza positivo. La loro fisima convive con attività assolutamente ragionevoli. Le più alte cariche dello Stato rendono visita al loro capo assumendo un contegno deferente. È per lo meno strano, no?”
“…come una piccola setta ebraica, fondata da pescatori incolti, cementata da una stramba fede sulla quale nessuna persona di buonsenso avrebbe scommesso un sesterzio, abbia divorato dall’interno l’Impero Romano in meno di tre secoli e, incredibilmente, abbia retto fino a oggi.”
“La vita dell’uomo è da preferire a quella di un dio, per la semplice ragione che è quella vera. Una sofferenza autentica è da preferire a una felicità illusoria. Non si può desiderare l’eternità perché essa non fa parte del nostro destino, un destino imperfetto, effimero e deludente, ma l’unico che dobbiamo amare, a cui dobbiamo sempre tornare, e tutta la storia di Ulisse, tutta la storia degli uomini che accettano di non essere altro che uomini per essere pienamente uomini, è la storia di questo ritorno.”
“ (… l’errore di) dedicare la propria vita a qualcosa che molto semplicemente non esiste e voltare le spalle a ciò che esiste davvero: il calore dei corpi, il sapore agrodolce della vita, la meravigliosa imperfezione del reale.”

IL FUTURO DEL GIORNALISMO TRA IL CARROZZIERE E GOOGLE

I giornali on-line, sin dalla loro prima comparsa sulla scena, hanno inteso riservare un ruolo marginale a editoriali e commenti. La smania di distinguersi dall’ormai agonizzante modello cartaceo, li ha indotti ad ignorare le regole basilari del buon giornalismo che assegnano a un giornale non il mero ruolo di contenitore amorfo di notizie, ma di palestra di idee e di opinioni attorno agli accadimenti del giorno. D’altra parte lo stesso giornalista dovrebbe essere consapevole che l’aspettativa di vita di un editoriale “digitale” non teme confronti con quella di uno “cartaceo”. Considerato che ormai con la carta di giornale non si può avvolgere nemmeno il pesce venduto abusivamente per strada, l’unica speranza che rimane al buon Eugenio Scalfari è di ritrovarsi il giorno dopo spiaccicato nei finestrini di una macchina in attesa di essere verniciata da un carrozziere. Viceversa con il digitale ti devi raccomandare l’anima a Dio-Google, poiché non avrai modo di far sparire (altro che “diritto all’oblio”) qualunque cazzata tu abbia scritto per saecula saeculorum. Detto questo, ho esaurito una buona metà dello spazio che mi è stato assegnato da Gianluca Del Gaiso per questo editoriale e sono andato abbondantemente, al mio solito, fuori tema: in realtà mi era stato chiesto una sorta di “discorso di fine d’anno”, bilanci dell’anno passato e propositi per il nuovo. Vedete miei cari vi sta parlando uno che, essendo nato nel 1953, si è visto passare sotto il naso alcune delle peggiori nefandezze mai prodotte dalla storia in tempi, si fa per dire, di pace. Guerra fredda, colpi di Stato, stragi di Stato, terroristi pilotati da servizi deviati, trionfo del capitalismo vorace e spietato, governi democristiani, Craxi, papi politici spacciati per paladini di Cristo, presidenti americani veri e propri killer seriali, ventennio berlusconiano. E oggi vorreste che io mi lamentassi di Obama o Matteo Renzi? Ma fatemi il piacere, studiate vi prego, ma studiate su testi buoni, non fatevi incantare dalle sirene dello sterile ribellismo e dalla logica del “piove governo ladro”. Le cure che si possono applicare al sistema sono esclusivamente di tipo omeopatico, ogni qual volta è stata tentata una cura di tipo diverso, l’ordine capitalistico mondiale ha messo in campo raffinatissimi e ben camuffati sistemi di annientamento che hanno prodotto il mondo che ci ritroviamo attorno. Se qualcuno pensa davvero che in Italia si possano creare i numeri per un governo di Sinistra dura e pura ha bisogno di un immediato TSO. Irresponsabili come Fausto Bertinotti sono la causa dello sfacelo degli ultimi decenni e tale esempio deve rimanere di monito da qui all’eternità. Matteo Renzi è la cura omeopatica efficace per curare la politica e l’antipolitica; per capire il presente bisogna studiare il passato, per non sforzarvi più di tanto (sia mai) andate su Wikipedia e guardatevi l’elenco di premier e ministri del dopoguerra e poi ditemi quale di essi vi sentireste di rimpiangere. Vi ricordo solo, a mo’ di esempio, che l’unico premier comunista che abbiamo avuto, tale Massimo D’Alema (remember?), per far dimenticare agli alleati questo peccato originale, non trovò di meglio da fare che andare a bombardare Belgrado e nonostante ciò fu mandato a casa miseramente. Buon 2016 dunque e godete di questa congiuntura politica (sia nazionale che locale) virtuosa come mai si era registrata fino ad oggi in Italia.
Franco Arcidiaco